Cosa vuole una donna? Questa è stata una delle domande irrisolte di Sigmund Freud. L’uomo non sa cosa la donna cerchi, lei non glielo sa dire. Un’attrice ammirata che aveva addosso lo sguardo di tutti, Marilyn Monroe, è morta (forse) suicida, in solitudine, a trentasei anni. Per Edda Ciano, figlia di Mussolini, la fucilazione del marito e il tradimento del padre hanno provocato l’incontro con una solitudine che per lei è anche stata un nuovo inizio. Anna Freud, Jeanne Guyon, Simone Weil, Etty Hillesum, persino l’assassina Rina Fort: in questo libro sfilano storie di donne consegnate a una strana solitudine, a volte criminale, a volte suicida, mistica o malinconica. Ma la solitudine, così insita nel femminile, è anche un luogo che può essere abitato con gioia. La scrittura di Muriel Drazien si muove lungo il filo dei significanti sulle orme della psicanalisi lacaniana, alla ricerca del segreto che avvolge la femminilità. Perché le donne non sono un enigma solo per gli uomini, ma anche per loro stesse.

 

MURIEL DRAZIEN (New York, 1938 – Roma, 2018) Proveniente da una famiglia di origine ashkenazita della Mitteleuropa, dopo la laurea alla Columbia University si trasferisce in Francia. Allieva diretta di Jacques Lacan, ha partecipato alla vita dell’École Freudienne de Paris. Medico psicanalista, ha affiancato la pratica privata a quella svolta nelle strutture pubbliche con Françoise Dolto, Maud Mannoni, Moustapha Safouan. Trasferitasi a Roma nel 1974, ha portato nella cultura psicanalitica italiana l’insegnamento di Lacan. Nel 1983 fonda l’Associazione La Cosa Freudiana. Nel 2001 istituisce con il Miur il Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti di cui è stata direttrice e docente. Membro dell’Association Lacanienne Internationale (Ali), ha sempre svolto la sua attività clinica fra Roma e Parigi. Lacan lettore di Joyce (2016) è il suo ultimo libro.

Les deux numéros du Journal français de psychiatrie que nous consacrons à l’automatisme mental de Clérambault tentent de répondre à cette exigence : ré-aborder une clinique qui, pour paraître désuète, n’en garde pas moins une pertinence qui se manifeste dans l’usage quotidien que nous en avons. Mais il ne s’agit pas de ressortir de vieux grimoires ou de mettre en avant une sorte de curiosité historique. Jean-Jacques Tyszler indique en quelques mots notre enjeu : « Toutes les questions de la psychiatrie classique, ce que nous appelons les tableaux, ne sont qu’une foule de questions humaines, énorme, hiérarchisée, complexe, dont nous n’avons pas fait le tour. »

Le n° 45 du jfp a abordé l’histoire et la clinique de ce concept controversé. Et l’automatisme mental ne nous introduit pas moins qu’à la question du rapport de l’homme au langage. Qu’est-ce que parler veut dire ? Voilà à quoi ce syndrome S, comme souhaitait l’appeler de Clérambault, nous invite et qui fait l’objet de ce second numéro.

L’étude de l’automatisme mental nous permettrait-elle d’approcher de plus près la physiologie de ce que Lacan nommait le parlêtre, ce qui constitue notre rapport au langage comme aux affects et à la motricité ?